Roma ore 11 (1956)
Il film di De Santis annoverò un cast di prestigio: Lucia Bosè, Carla Del Poggio, Maria Grazia Francia, Lea Padovani, Delia Scala, Elena Varzi, Raf Vallone, Massimo Girotti, Irene Galter, Paolo Stoppa, Armando Francioli, Paola Borboni, Eva Vanicek, Checco Durante, Alberto Farnese.
Il lavoro d’indagine compiuto da Petri fu pubblicamente riconosciuto quando nel 1956 divenne un libro, Roma ore 11, pubblicato per le Edizioni “Avanti!” di Milano. La prefazione reca le firme di Cesare Zavattini e Giuseppe De Santis. Nell’avvalorare lo spirito “sociale” che caratterizza la pellicola, è lo stesso regista di Riso Amaro a tributare il giusto merito al decisivo contributo del giovane e promettente Petri.
LE PAROLE DI DE SANTIS
«I fatti di cronaca hanno spesso il potere di illuminare di colpo una data realtà sociale, di scoprirne i moti segreti e in quel momento più tipici. Più che per la sua brutalità, il crollo di via Savoia colpiva per le circostanze congiunte incredibili, per la sproporzione tra il numero delle ragazze convenute su quella scala e l’unico posto a disposizione. Era come un indice tragicamente puntato sulla piaga della disoccupazione, al tempo stesso rivelando il volto segreto della grande città e non solo dei ceti tradizionalmente più poveri.
Ci trovavamo di fronte ad uno “spunto” che mostrava di contenere tutte le caratteristiche per trarne un film, non inutile né scontato, su Roma e sui suoi problemi.
Prima ancora che l’inchiesta fosse effettuata, Puccini, Franchina, Sonego e io avevamo buttato giù alla buona un’idea di soggetto che, partendo da una concezione corale del dramma, cercava di cogliere il significato fondamentale della sciagura intorno allo svolgersi di quattro cinque storie di ragazze. Era la strada giusta, certo; ma quando Zavattini si unì a noi per aiutarci a trasformare in racconto spiegato questa intuizione iniziale, suggerì subito la necessità dell’inchiesta.
Si trattava, s’intende, di ripercorrere i dati della cronaca per risalire da essi al personaggio, per strappare dal mosaico delle singole testimonianze e delle ragioni individuali l’anello che mettesse in movimento, ma nella stessa direzione e prolungando, per così dire, l’eco e la risonanza e il riverbero della cronaca, la nostra fantasia di autori. Eco, risonanza e riverbero che sarebbero stati prima di tutto umani, morali e, ovviamente, sociali. Non avrebbero dovuto soltanto illuminarci sui singoli destini, e sul loro fatale intrecciarsi in quel giorno e in quel luogo; ma su uno spaccato, anche di vita romana, del ceto medio e del popolo; sui pensieri, il costume, le sofferenze e le speranze delle ragazze di Roma che corsero al richiamo di quell’annuncio economico, e delle loro famiglie, padri, madri, mariti, fidanzati, fratelli, sorelle.
L’inchiesta doveva insomma arricchire la nostra conoscenza dei fatti, collaudare l’intuizione che avevamo già avuta; farci respirare quei fatti con lo stesso calore con cui le vere protagoniste li avevano vissuti; raccogliere aneddoti, fissare psicologie, comprendere sentimenti.
L’affidammo a Elio Petri, ancora quasi un ragazzo allora, e che ci pareva, ed era, singolarmente adatto a compiere bene un lavoro di tal fatta: prima di tutto è romano figlio di popolani, e poi estro e pazienza e curiosità si capiva subito che non gli mancavano davvero.
L’inchiesta fu condotta da Petri in maniera organica, capillare. Prima di tutto, tra le ragazze che avevano vissuto quelle ore. Chi erano? Da dove venivano? A quali categorie sociali appartenevano? Quali erano i loro pensieri particolari quella mattina, e in generale cosa pensavano del lavoro di dattilografa? Perché avevano bisogno di quello stipendio? Come lo avrebbero impiegato? Quali erano i loro gusti nel vestire, che film, quali letture preferivano? Chi erano i loro mariti, i loro fidanzati? Volevamo sapere tutto di tutte loro, convinti che per profondamente comprenderle non potevamo limitarci a domandare solo il loro giudizio sul crollo della scala, le loro emozioni di quel giorno; ma, attraverso la scoperta più ampia della personalità e della storia loro, capire perché erano arrivate a finire proprio là.
Volevamo scoprire quale era il nesso che le legava, così com’erano fatte coi loro temperamenti ed esperienze, al crollo della scala; volevamo, attraverso l’inchiesta di Elio Petri, vivere il più possibile insieme con loro.
Arrivammo perfino a ripetere l’esperimento dell’annuncio economico. Una mattina anche noi le convocammo in un ufficio per sceglierne una che ci sarebbe poi servita come dattilografa durante tutto il lavoro di sceneggiatura. Scegliemmo un ufficio disposto al pianterreno, raggiungibile senza dover salire uno scalino; eravamo proprio terrorizzati dall’idea che potesse ripetersi l’affollamento di quel giorno segnato, e che un’altra scala potesse crollare […].
Fu una giornata memorabile per tutti noi. Fu sempre a quella giornata che cercai di richiamarmi in ogni momento del mio lavoro di ripresa, ripensando alla pena che ne avevo ricevuto, a quei volti, a quei gesti, a quei discorsi, a quelle espressioni; alle espressioni profonde che la miseria materiale o morale di quelle ragazze aveva lasciato dentro di me.
Ma l’inchiesta non si fermò qui. Non poteva fermarsi qui. Man mano che esaminavamo il materiale che Petri raccoglieva, e proprio sulla base delle dichiarazioni, delle riflessioni e dei commenti che le ragazze interrogate erano portate a fare sulla sciagura e sue cause e conseguenze, ci rendevamo conto che dovevamo allargare i confini e superare i limiti che ci eravamo proposti: per sfuggire all’aneddotica e alla cronaca vera e propria.
Petri ampliò i suoi incontri, parlò con altre ragazze e donne romane indirizzate verso altri lavori, sartine, commesse, mascherine di cinema, lavandaie, stiratrici, operaie di fabbrica e casalinghe. A tutte furono rivolte le stesse domande: cosa pensavano della condizione generale della donna nel lavoro, quali erano i loro problemi, i loro interessi; come giudicavano la sciagura di via Savoia, di chi ritenevano fosse la colpa se quella scala era crollata e se non dieci o venti ragazze, ma duecento, si erano presentate a quel posto, uno solo, un posto come tanti […].
Tutti cercavano delle responsabilità dirette, remote o vicine, nelle persone e nei fatti evidenti, nel pettegolezzo spicciolo, perfino; e tuttavia fu proprio collegando le risposte, i dati, le notizie dell’inchiesta che fummo consapevoli più che mai della sola verità che stava al centro della disgrazia, che superava i limiti angusti di questo o quell’episodio, che indicava con precisione e freddezza la realtà dei fatti. Questa verità era unica, l’unica risposta alle due domande, e unificava tutto, destini singoli e frammenti, cronaca e invenzione. Era il bisogno di un lavoro per non morire di fame, il bisogno di alleviare gli stenti di una misera vita familiare, il bisogno di soddisfare il legittimo desiderio d’un abito o di un paio di calze in più. […].
Fare il film, questo film, era per noi cineasti l’unico e più concreto modo di far conoscere e denunciare l’amara realtà che si nascondeva sotto il tragico crollo della scala. Era il più giusto modo di far comprendere a quelle ragazze che accanto a chi le respingeva, altri uomini esistevano che comprendevano il loro dolore, la loro miseria, i loro sentimenti, i loro problemi. Era anche il più moderno modo, per noi cineasti, d’essere presenti a noi stessi, con la coscienza d’essere pronti a raccogliere l’umano appello di chi aveva chiesto solidarietà per la propria condizione e s’era visto precipitare tra i rottami d’una scala travolta.
Questa inchiesta che state per leggere ha dunque dato un contributo importante al film. Può sembrare un paradosso, ma la sceneggiatura di Roma ore 11 l’hanno per buona parte scritta loro, gli intervistati di Petri, le ragazze, prima di tutti, e poi i pompieri, la portiera, i testimoni, i negozianti di via Savoia, le donne lavoratrici che furono avvicinate, gli infermieri del Policlinico.
Chi ha veduto il film ritroverà senza dubbio nell’inchiesta di Elio Petri battute e personaggi; risentirà, soprattutto, lo spirito e il tono del film, rivedrà la visuale dalla quale sono inquadrati fatti e uomini. Si può dire senz’altro che il coro, i personaggi minori, nascono direttamente dall’inchiesta; e del pari affermare che anche alcuni personaggi centrali, del resto riconoscibilissimi anche ad un sommario confronto, ne sono filiazioni evidenti.
L’inchiesta ha risposto appieno allo scopo per il quale l’avevamo ordinata. Ha confermato le nostre intuizioni, fornito un materiale di base, suggerito un tono, una colorazione; ampliato i nostri punti di vista; stimolato, infine, senza però imprigionarla, la nostra fantasia: Non ci invitò ad un film di “documenti”, prolungò e verificò e rafforzò le nostre intenzioni nel senso del racconto elaborato.
Fu anche “merito” dell’inchiesta, del bagno concreto che ci aveva fatto fare in una realtà senza possibili mezzi termini, se il film fu attaccato e boicottato. Il successo della sua prima visione, ancorché tenuta un poco in sordina, suggerì al Tempo di Roma un articolo di fondo violentissimo, che attaccava il governo colpevole di aver consentito la realizzazione di un simile film. Fu un segnale di battaglia. Il film fu “smontato” dalla sua prima visione, senza nessuna ragione di convenienza economica, anzi; tolto di circolazione, insabbiato nelle seconde e terze visioni; escluso infine deliberatamente dalla selezione italiana per il Festival di Cannes di quell’anno.
Era segno che avevamo colpito nel giusto. Un giorno, una “inchiesta” bisognerà farla sulle responsabilità del boicottaggio ai danni di tanti film italiani neorealisti, sull’intrecciarsi stupefacente delle sollecitazioni e dei dispetti; credo che ne uscirebbe una documentazione istruttiva sull’intolleranza e sulla lotta contro il cinema nazionale di questi anni.
Malgrado tutto questo, non sono certo mancati, poi, i riconoscimenti al film. La critica italiana e straniera, lo hanno elogiato senza risparmio. Nemmeno i premi, all’estero, sono mancati.
Nessun riconoscimento, invece, è mai toccato all’inchiesta di Elio Petri, tranne il nostro. Fino a ieri, s’intende, poiché oggi uno davvero sostanziale gliene viene dalla pubblicazione. Io mi auguro che la sua lettura farà valutare a tutti, concretamente, quanto il film e i suoi autori debbano ad essa e quanto il lavoro di inchiesta possa essere utile alla tendenza realistica».
Giuseppe De Santis
(brano tratto dalla prefazione del libro)
Elio Petri, Roma ore 11, Edizioni “Avanti!”, Collana Omnibus, Milano, 1956
Prefazione di Cesare Zavattini e Giuseppe De Santis
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970)
Prima edizione della sceneggiatura di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri. Pubblicata nel giugno del 1970 dalla casa editrice Tindalo di Roma (Tipografia Salemi) «in una collana economica, impegnata e maneggevole, senza fotogrammi, senza compiacimenti per teorici di cinema ed esteti», secondo la volontà di Petri e del co-autore Ugo Pirro. La prefazione è affidata allo psicoanalista Franco Fornari (1921-1985).
LA PREFAZIONE DI FRANCO FORNARI
«Dopo aver visto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mi sono sentito in uno stato d’animo insolito. Ero andato ad una delle prime visioni perché, da vari amici, avevo sentito dire che il film sarebbe stato ritirato dalla circolazione; perché troppo lesivo – si diceva – del buon nome della polizia italiana. Se ne era parlato come di una “bomba”. Ma dopo averlo visto io non lo sentivo come una bomba. Avevo dentro di me qualcosa d’altro, un misto di riflessione fiduciosa. “Se questo non lo tolgono vuol dire che gli italiani cominciano a saper elaborare il lutto delle proprie istituzioni”, pensavo. Intendo dire che se una società tollera, sia pure nelle vicende di un film, il processo alla polizia e se tra gli uomini che sono al potere c’è qualcuno che si oppone a chi vuole impedire che tale processo avvenga in pubblico, vuol dire che quella società comincia ad elaborare il lutto: in altri termini, si pone la possibilità di poter curare i propri mali. (…) Di fronte a tutta la vicenda ho ripensato a un libro, Il delinquente e i suoi giudici di Alexander e Staub, tradotto e presentato coraggiosamente, nei primi anni di questo dopoguerra, da un giovane studioso che è oggi uno dei più insigni magistrati italiani. In questo libro, scritto da uno psicanalista e da un giurista, si sostiene la tesi secondo la quale l’uomo che persegue penalmente i crimini combatte nel criminale una parte criminosa di sé, alienata e messa fuori di sé: nel criminale, appunto. Così quando dopo il delitto, che costituisce la prima scena del film, si scopre subito che il criminale è in realtà un funzionario di polizia, il film diventa la esplicitazione impressionante della tesi di Alexander e Staub. E quando i funzionario neopromosso a capo dell’ufficio politico fa il discorso dell’investitura, traboccante di autoritarismo repressivo, lo spettatore ha modo di vedere, messagli sul piatto, l’origine dell’autoritarismo repressivo: cioè la criminosità dell’autoritarista stesso. E potrà magari ricordarsi – al limite – di una inquietante e ironica affermazione di Freud, quando diceva di aver commesso l’eresia di far derivare la morale dall’istinto di morte. Così pure il finale del medesimo discorso dell’investitura autoritarista: “la civiltà è repressione” sembra ambiguamente inserirsi nel grande dibattito sul significato della cultura che Freud ha iniziato con Il disagio nella civiltà. Ma il neodirigente dell’ufficio politico della questura commette l’errore (…) di confondere “repressione” con “rimozione”. In tal modo le forze della repressione trionfalista e un certo tipo di contestazione si danno stranamente la mano a vicenda nel confondere le idee. Dico questo perché un noto intellettuale della sinistra contestataria, ha affermato in forma di boutade, che il film avrebbe potuto benissimo essere finanziato dalla polizia. (…) Ma chi è stato in prigione ed è passato nelle trafile degli uffici politici della questura, chi si è interrogato sulla morte di Pinelli, non pensa affatto che il film sia uno di quelli che potrebbero essere stati finanziati dalla polizia e nota invece che è la prima volta che una cosa del genere avviene in Italia. E’ la prima volta che gli italiani osservano in un film che gli interrogatori della polizia avvengono con ceffoni e con litri di sale e ravvisano nei tratti, a volte perfino patetici, dei poliziotti sopraffattori qualcosa che accomuna l’autoritarismo delle istituzioni con l’autoritarismo familiare, per cui assistendo al film lo spettatore si trova suo malgrado a pensare a ciò che succede nelle “belle famiglie italiane”. Si riceve pertanto l’impressione che un certo tipo d’intellettuale di sinistra, nel momento in cui esce un film che fa un discorso chiaro e fortemente motivato contro l’autoritarismo della polizia, ha bisogno di pensare che sia la polizia, al limite, a finanziarlo, perché ha paura che l’antiautoritarismo diventi una cosa testimoniata da tutti, rischiando così di perdere il significato aristocratico di una prerogativa squisitamente personale ad uso narcisistico. (…)
Rivedendo il film, la mia attenzione si è più soffermata sui flashback della vicenda erotica sadomasochistica che, con lampi rapidi e reiterati, percorrono come un filo rosso tutto il film. Il momento per me culminante (in cui la signora Terzi, da bambina masochista sadicizzata dal padre-poliziotto, si trasforma in madre sadica che schiaffeggia il poliziotto-bambino) costituisce una scena esemplare da manuale delle perversioni. Pur nell’atmosfera di attualità politica in cui è posta, tutta la vicenda erotica, forse anche per la straordinaria bravura dell’attore Volonté, ha un netto rigore non solo stilistico ma anche scientifico e porta lo spettatore alla riflessione sul rapporto perverso anziché ad una fruizione perversa del medesimo, come avviene in molti film degli ultimi anni. (…) Questa donna che seduce un capo della polizia per giocare il ruolo della propria identità sessuale attraverso la identificazione con donne assassinate, fino ad assumere il ruolo di istigatrice al reato e all’assassinio in uno strato gioco frustrante di seduzione e di castrazione che cosa rappresenta? Il capo della sezione omicidi rappresenta il mito di un eroe anticrimine che diventa lui stesso il crimine che deve scoprire e punire: è quindi in qualche modo imparentato con Edipo. La scena paradossale e inquietante in cui è obbligato a confessarsi innocente, anche se giocata nella finzione, colloca l’eroe, che come Edipo è simultaneamente l’inquisitore e il colpevole, a un livello di ambiguità totale del suo rapporto con l’istituzione che rappresenta, in un rovesciamento radicale del giusto e dell’ingiusto. In questo senso la citazione kafkiana che conclude il film è del tutto adeguata. Ma la signora Terzi che mito rappresenta? Questa strana donna che appare in veli neri, funerari, ha un marito omosessuale, un amante poliziotto e un amante contestatore. Nessuno la ama. Anche il contestatore. Pace sembra entrare nella vicenda amorosa per fare il gesto beffardo di dileggio al poliziotto-padre, che “tiene in pugno”. (…) Mi sembra di poter cogliere nella protagonista del film un messaggio estremamente drammatico e metapolitico. Un messaggio agghiacciante che va al di là della vicenda di un funzionario siciliano di polizia e anche al di là di un possibile processo all’autoritarismo della polizia.
In altra occasione ho avuto modo di chiarire come la coincidenza tra delitto e norma giuridica appartiene all’area del fenomeno guerra: la “grande illusione” di amare uccidendo. La guerra, in quanto coincidenza tra norma e delitto può essere ben rappresentata dalla vicenda del capo della sezione omicidi. Ma il gioco di finzione relativo all’amare uccidendo è un gioco più sottile. La strana donna che gioca con la finzione della morte, con la finzione di essere uccisa ed è uccisa realmente, rappresenta allora, nel senso del mito, la fine di un illusione. La signora Terzi sembra pertanto collocarsi nell’orizzonte di un nuovo mito emergente nel quale la illusione della uccisione come procacciatrice d’amore crolla bruscamente tra due lenzuola nere: e sulle lenzuola nere non c’è traccia di sperma. Il nuovo mito, emergente nella strana vicenda della signora Terzi, sembra allora collocarsi nell’area della crisi della guerra come “grande illusione”: la guerra da che è diventata la morte, non può più mascherarsi come difesa dei nostri oggetti d’amore: cioè non può più generare amore. In tal modo i film, forse a sua insaputa, contiene un discorso antiautoritaristico rivolto non solo verso la polizia, ma verso la ancor più radicale istituzione violenta: la guerra. così la morte della signora Terzi è il punto in cui finisce l’illusione di Thanatos che si sforza di mimare Eros. E non è forse a caso che tale mimesi sia già sfatata nel proemio del film, che comincia appunto con la morte reale: Thanatos è Thanatos e basta, e sulle lenzuola nere non c’è traccia di Eros. E oggi noi sappiamo che anche per la guerra, la grande illusione, Thanatos non può mimare Eros. Thanatos è Thanatos e basta: come per la signora Terzi. Si tratta ora di vedere se saremo capaci di fare un’autentica elaborazione del lutto»
Elio Petri, Ugo Pirro, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Editrice Tindalo, Roma, giugno 1970
Prefazione di Franco Fornari
La proprietà non è più un furto (1973)
I monologhi che compaiono nel film risultano decisamente ridimensionati rispetto alle stesure provvisorie. A dare dimostrazione piena dell’abilità letteraria di Petri e Pirro è l’uscita del volume La proprietà non è più un furto, pubblicato da Bompiani nel novembre 1973 e allegato poco più tardi alla rivista Ombre rosse (n° 2 del 15 dicembre 1973). Il libro esce nella forma di un romanzo, in cui i monologhi acquistano un respiro ben più ampio rispetto alla loro collocazione nella pellicola.
Nel terzo capitolo, intitolato LA “COSA”, Anita si racconta attraverso uno slancio sognante:
«Mi piacerebbe assai, anziché raccontarvela a parole, cantarvela la mia vita, il mio romanzo senza amore.
Ma benché legga Sorrisi e canzoni, ascolti la radio e resti davanti alla televisione tutte le sere, non ho trovato una canzone per dirvi chi sono.
Sono anche amica di una ragazza, Mirella, che si occupava dell’IVA in uno studio commerciale, ma di sera canta nei locali e ha persino inciso un 45 giri; ma anche Mirella non mi ha saputo trovare una canzone che dica che una donna è una cosa.
Perché io sono una cosa. Anzi, tante cose: zinne, cosce, pancia, bocca e tutto il resto, che lo spiegano meglio sui giornali femminili che io.
Io mi sento di essere fatta di tanti pezzi e mi viene da ridere. Perché non ci sarebbe da ridere a sentirsi un vaso pieno di buchi che non può servire nemmeno come i portafiori?
Il mio passato? Sarebbe una canzone per Mina.
Che ci provassero i cantautori a mettere in musica per “Canzonissima” il fatto vero che mi hanno portato via da casa, così come si porta via dal salumiere una scatola di pelati! A una scatola di pelati non importa di sapere chi la ruba e dove la portano ad aprire. Dovunque una scatola di pelati viene aperta con l’apriscatole, io sono stata aperta con le dita, e resto ancora aperta prima con tutti i pelati dentro; conservata in una bella casa ricca, ma potrei stare anche in un frigorifero, stretta fra due bottiglie d’acqua minerale.
Come persona, poi, faccio quello che potrebbe fare una macchina contasoldi nella macelleria del mio amante. Sto alla cassa e quando non sto alla cassa, sto sotto le mani sue: mi tratta come un vitello già squartato e dissanguato.
Canta, Mina, canta, Ornella, di me che sò un vitello fresco nelle mani di un uomo! Voi cantate l’amore bello e quello brutto chi lo canta? Io, Anita? C’ho una voce!».
Questo è l’incipit di una confessione che copre ben quindici pagine. L’intero romanzo è suddiviso in otto capitoli interamente dedicati alle singole dichiarazioni dei protagonisti. Nel secondo, il macellaio si presenta e racconta, nell’ampio spazio di quarantatré pagine, il suo punto di vista:
«Non sembra, ma sentirsi giustificati in tutto e per tutto è un gran brutto affare, un gran peso, perché, alla fine, a forza di sentirti giustificato tu strozzi pure tua madre e stai a posto.
Questo è il problema mio. Che quando vado indietro con la memoria tutto pare già scritto da qualcuno, tutto previsto, e, come si dice?, sceneggiato. Tutto, tutto previsto fin nel più piccolo particolare. E allora? Che stiamo a discute? Di che sarei responsabile?
Io non sono responsabile d’essere quello che sono, né di essere quello che non sono. Cosa sono? Un bottegaio ricco a strafotte, alla faccia di chi mi vuole male, onestamente interessato, secondo le norme del codice civile, al commercio di carni commestibili. Sono come mi ha voluto la coincidenza fortunata di molti avvenimenti, addirittura antecedenti alla mia nascita, e comunque, indipendenti da me […].
È un mestiere elegante perché per maneggiare un coltello devi averci senso estetico e saper trovare la posa più gradevole all’occhio di chi guarda, che generalmente è occhio di donna, quindi critico. Un Macellaro è come un Torero, se è bravo. E un Torero, se non è bravo, è come un Macellaro, come una scamorza de Macellaro […].
Tutto già scritto, tutto già deciso, anche quando ingravidai Palmira la figlia del principale, cioè la mia moglie legittima. Io c’entrai poco. A pensarci bene, lei restò ingravidata soltanto perché era impossibile che ci restassi io».
Il romanzo “ripara” alle necessarie sintesi del racconto cinematografico, lì dove non era possibile chiarire come ogni maschera fosse arrivata a rappresentare una precisa patologia maniacale. Il discorso di Petri sul paternalismo aleggia come un fantasma persecutorio che esaspera la natura deviante del senso di possesso. La “roba”, la “donna” e il “lavoro” si piegano al culto della proprietà per vile convenienza o generale consuetudine.
Elio Petri, Ugo Pirro, La proprietà non è più un furto, Bompiani, Milano, novembre 1973
Roma ore 11 (2004)
«Pedinamento», lo chiamava Zavattini: la raccolta dei dati di realtà, per il soggetto di un film neorealista. Quello del giovane Petri (futuro regista da Oscar) su un fatto di cronaca triste della Roma del 1951, era così perfetto che i suoi amici ne consigliarono il romanzo.
Lunedì 15 gennaio 1951, in via Savoia a Roma, un crollo pauroso travolse, ferendo e uccidendo, ottanta ragazzine. La scala della palazzina dove si tenevano i colloqui di lavoro per un posto pagato poche lire di segretaria dattilografa, non aveva sopportato il peso delle duecento candidate convenute. «Il crollo di via Savoia – disse il regista De Santis – era un dito puntato sulla piaga della disoccupazione». E difatti, poco tempo dopo, De Santis e il suo gruppo di cineasti del neorealismo decisero di farne il film che sarebbe andato sugli schermi col titolo di Roma ore 11. Il «pedinamento», la raccolta cioè, nel linguaggio di Zavattini, dei dati di realtà da cui scrivere il soggetto, fu affidata a un giovanissimo giornalista alle prime armi e appassionato di cinema. Elio Petri. Petri il futuro regista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (vincitore di un Oscar) e di «Todo modo» si mise al lavoro con un rigore di cronaca ma insieme con il gusto narrativo del futuro maestro del cinema: e fu notato (tanto che la sua «inchiesta» nel 1956 divenne un libro: questo libro che ripubblichiamo). Ragazza per ragazza rintracciò le loro storie, delle loro famiglie, gli ambienti; registrò i gusti, le abitudini, i tic, le espressioni dei volti e gli atteggiamenti, le pose e lo stile dell’abbigliamento; sondò i sogni e le attese; decifrò l’idea di giustizia e di ingiustizia; ricostruì l’immagine del mondo. Scavandone, espressivamente, le psicologie. E più di un’inchiesta, più di un documento obiettivo, l’indagine di Petri raffigura dell’Italia di allora, della Roma popolana, del popolo degli anni Cinquanta, la sostanza. Non solo la miseria, la disperazione, la subita prepotenza quotidiana economica e sessuale, ma soprattutto la forza del desiderio, che il narratore intuisce o che, senza forse saperlo, raffigura: perfetta prefigurazione delle forze sotterranee che presto plasmeranno il paese del Miracolo economico e degli anni Sessanta, quando ancora quelle ragazze saranno delle giovani. Una forza del desiderio che, trasferita al cinema, costò al film il boicottaggio e la censura.
(brano tratto da sellerio.it)
Elio Petri, Roma ore 11, Sellerio editore, Palermo, 2004
Nota di Antonio Ghirelli e Carlo Lizzani – Prefazione di Giuseppe De Santis